Come sterilizzare e “riciclare” una mascherina

L’efficienza di filtrazione e la capacità protettiva di una mascherina facciale sono compromesse quando la maschera viene bagnata, strappata o rimossa. In generale, maggiore è il valore di protezione di una maschera più a lungo manterrà la filtrazione, tuttavia non esiste una regola fissa per quanto tempo deve essere indossata una maschera, in quanto dipende da livelli di umidità, frequenza respiratoria, secrezione nasale, conversazione, etc. Una mascherina dovrebbe essere indossata solo per una procedura o visita del paziente; se si bagna o si sporca, va sostituita o opportunamente “riciclata”. Ecco come fare.

La decontaminazione e il riutilizzo delle mascherine per uso medico o da parte della popolazione generale non sono una nuova idea. I ricercatori hanno testato una varietà di metodi – luce ultravioletta, candeggina, gas ossido di etilene, calore umido, vapori di acqua ossigenata, alcool, ozono, etc. – e hanno concluso in articoli pubblicati che la decontaminazione può funzionare. In questo articolo illustreremo in dettaglio alcuni di questi metodi per poterli applicare al meglio anche a casa propria.

Si fa presente che le istruzioni di decontaminazione contenute nel presente articolo si applicano solo ed esclusivamente nei casi in cui venga valutato applicabile il riutilizzo dei cosiddetti “dispositivi di protezione individuale” (DPI), ed in particolare delle mascherine monouso, a seguito di carenza per emergenza sanitaria e/o dell’alto costo sul mercato delle stesse. Pertanto, il trattamento di seguito illustrato deve essere limitato a quei casi in cui il rischio è stato valutato basso ed il re-impiego applicabile.

I vari tipi di mascherine monouso per uso medico.

Di conseguenza, il trattamento è adottabile dalla popolazione generale, ma non è ufficialmente consigliabile per tutto il personale medico che si trova ad operare con persone infette (o in ambiente ad alto rischio di contagio), in quanto non vi sono – al momento – dati per poterne convalidare l’efficacia. Non sono neppure disponibili dati sul numero massimo di volte per le quali il trattamento può essere applicato prima che si verifichi un prematuro ed evidente deterioramento della mascherina stessa.

Infatti, il degrado dovuto a condizioni fisiche, chimiche e termiche può influire negativamente sulle prestazioni del materiale della mascherina. L’integrità del materiale può anche essere compromessa durante l’uso a causa degli effetti generati dalla sua flessione, se bagnata con contaminanti come alcol e sudore. Pertanto, un test può valutare le prestazioni del materiale in tali condizioni, e lo abbiamo illustrato nel nostro articolo Come testare il filtraggio delle mascherine, che puoi trovare qui.

Il riciclo delle mascherine in ambito ospedaliero

In ogni caso, piuttosto che non usare nulla o usare mascherine “fatte in casa”, che potrebbero includere coperture improvvisate per bocca e naso con bandane, sciarpe o altri materiali, meglio usare una mascherina “riciclata”. In ospedale, il processo di riciclo implica innanzitutto l’identificazione di maschere che possono essere riciclate. Infatti, occorre selezionare quelle che non sono visibilmente sporche, su cui non ci sono lacrime, non ci sono buchi, ed il materiale che le compone sembra intatto.

In ospedale, a questo punto le mascherine vengono sospese su rack in una stanza, per la successiva sterilizzazione. Allo scopo, si può ad esempio usare una macchina che viene normalmente utilizzata per eseguire la fumigazione delle stanze d’ospedale dopo la dimissione di un paziente con infezione. E il modo in cui questa macchina funziona è che riempie la stanza di vapore di perossido di idrogeno, meglio noto come “acqua ossigenata”, un composto chimico che agisce da disinfettante.

Mascherine in attesa di essere sterilizzate.

Il processo chimico in questione richiede circa cinque ore, con del tempo aggiuntivo per estrarre i prodotti chimici dalla stanza e dalle mascherine. In una ricerca preliminare effettuata in un ospedale del Connectituc (USA), si è trovato che il processo di vaporizzazione del perossido di idrogeno ha ucciso tre tipi di virus selezionati come modelli per il virus SARS-CoV-2. Le capacità di filtraggio delle mascherine sottoposte a tale processo sono rimaste intatte, per cui le mascherine riciclate sono di nuovo utilizzabili.

Anche se i risultati dello studio sono in attesa di conferma da parte di un laboratorio, certamente sono molto interessanti e vogliamo che tutti gli ospedali ne siano consapevoli, in modo che possano riutilizzare la macchina che potrebbero già avere nella loro struttura per un nuovo scopo per proteggere i loro lavoratori, soprattutto qualora l’alternativa fosse quella di non avere alcuna mascherina. In ogni caso, le mascherine riciclate potrebbero venire stoccate in un deposito per le eventuali future emergenze.

In realtà, è possibile decontaminare le mascherine anche con la luce ultravioletta al fine di riutilizzarle. È quanto ha fatto, negli Stati Uniti, lo University of Nebraska Medical Center di fronte a una grave carenza di maschere protettive per gli operatori sanitari, nel pieno dell’emergenza Covid-19. Ciò ha permesso a questo ospedale di utilizzare ciascuna mascherina per una settimana o più. Molti altri ospedali in tutto il Paese hanno seguito un approccio simile, nonostante si trattasse di mascherine monouso.

L’impiego di lampade ultraviolette per uso ospedaliero per la sterilizzazione delle mascherine.

In effetti, la procedura di riutilizzarle violava le norme promulgate dai Centri per il controllo e la prevenzione delle malattie (CDC), secondo le quali se le mascherine fossero state decontaminate non avrebbero più potuto essere certificate per l’uso. Ma i CDC hanno in seguito pubblicato una nuova guida, affermando che “come ultima risorsa, potrebbe essere necessario” per gli ospedali utilizzare maschere non approvate dall’Istituto nazionale per la sicurezza e la salute sul lavoro (NIOSH).

Questo cambiamento significa che ora è accettabile, per gli ospedali americani, decontaminare e riutilizzare le mascherine durante una pandemia come quella di coronavirus. Nessuno pensa che il riutilizzo delle mascherine sia l’ideale e la pratica può sollevare problemi di responsabilità legale. Ma sembra esserci poca scelta quando l’alternativa, per le carenze di attrezzature e di dispositivi di protezione individuale (DPI) è quella di non usare affatto dispositivi facciali di protezione della respirazione.

La disinfezione fai-da-te con soluzione idroalcolica

In ambito domestico, sono possibili vari metodi di disinfezione delle mascherine protettive monouso in caso di necessità. Il primo metodo è suggerito in un documento dello Stabilimento Chimico Farmaceutico Militare di Firenze. Il materiale da impiegare per la disinfezione è costituito da una soluzione idroalcolica al 70% in erogatore spray ecologico o altro dispenser idoneo a permettere una spruzzatura della soluzione previe opportune cautele, poiché l’alcool può provocare gravi danni agli occhi.

L’alcool etilico (o etanolo), se non è già al 70%, può essere usato come elemento di partenza per realizzare una soluzione idroalcolica al 70%.

La soluzione idroalcolica al 70% la potete realizzare a casa vostra, unendo 7 parti di alcool etilico con 3 parti di acqua. L’attività dell’alcool etilico al 70% contenuto nella soluzione è legata alla capacità di denaturare le proteine citoplasmatiche delle cellule. In assenza di acqua, le proteine non vengono denaturate così prontamente come quando l’acqua è presente. Ciò fornisce una spiegazione del perché l’alcool etilico puro, che ha azione disidratante, è molto meno battericida delle soluzioni di alcool e acqua.

In particolare, concentrazioni di soluzione idroalcolica superiori al 91% coagulano le proteine all’istante. Di conseguenza, viene creato uno strato protettivo che protegge altre proteine da un’ulteriore coagulazione. Tali soluzioni consentono alle spore di trovarsi in uno stato dormiente senza essere uccise e uccidono i batteri con più difficoltà: una soluzione al 50% uccide il batterio Staphylococcus Aureus in meno di 10 secondi, ma una soluzione al 90% con un tempo di contatto di oltre due ore è inefficace.

Poiché sia la superficie esterna della mascherina indossata e le mani (o i guanti) possono essere contaminati dal virus, nella fase di disinfezione si deve fare particolare attenzione alla manipolazione della mascherina stessa, onde evitare il rischio di infettarsi o di reinfettare. Per questo motivo è importante attenersi scrupolosamente all’ordine delle operazioni descritto di seguito, in modo da evitare la contaminazione.

Alcuni batteri diventano spore quando le condizioni ambientali lo permettono, sviluppando una maggiore resistenza ai disinfettanti a base di alcool.

Ecco, in pratica, come occorre procedere:

  1. Effettuare un accurato lavaggio delle mani secondo lo schema illustrato di seguito:
  2. Togliere la mascherina indossata sul viso utilizzando gli elastici e cercando di evitare di toccarla nella sua parte interna.
  3. Lavarsi nuovamente le mani seguendo le istruzioni fornite in precedenza.
  4. Indossare un paio di guanti monouso (in lattice o in nitrile) o, in alternativa, sanitizzare le mani con una soluzione idroalcolica al 75-85% o altro disinfettante idoneo.
  5. Adagiare la mascherina, con la parte esterna rivolta verso l’alto, su una superficie precedentemente pulita/sanitizzata con acqua e sapone o con una soluzione idroalcolica al 75-85% o con altro disinfettate idoneo.
  6. Spruzzare uniformemente la soluzione idroalcolica al 70% su tutta la superficie, compreso gli elastici, ma senza eccedere nella bagnatura: è sufficiente che sia spruzzato uno strato uniforme sull’intera superficie.
  7. Girare la mascherina e ripetere l’operazione.
  8. Lasciare agire la soluzione fino a completa evaporazione in un luogo protetto (almeno 30 minuti, il tempo di asciugatura può variare in funzione delle condizioni ambientali).
  9. Dopo l’asciugatura, trascorso il tempo suddetto, la mascherina è disinfettata, pertanto occorre evitare di contaminarla, soprattutto nella parte interna. In caso di persistenza di odore di alcool, si consiglia di lasciare ulteriormente asciugare su una superficie pulita e sanitizzata.
  10. Se non la si usa subito, riporre la mascherina in una busta di plastica fino a nuovo uso.

Un nebulizzatore utilizzabile per la disinfezione fai da te delle mascherine.

Noi ci permettiamo di osservare che il nebulizzare la soluzione idroalcolica sulla mascherina evitando, al contempo, di inzupparla probabilmente non permetterebbe alle goccioline della soluzione stessa, per quanto piccole, di raggiungere tutti i punti della superficie della mascherina – e comunque certamente non in modo omogeneo – pertanto riteniamo opportuno integrare la procedura suddetta con una ulteriore fase “10”, al fine di garantire un’esposizione completa all’agente disinfettante.

In pratica, si tratta di prendere una pentola piuttosto alta e di mettervi sul fondo circa 1 cm di soluzione idroalcolica al 70%. A questo punto, si prende un coperchio grande almeno quanto la pentola, lo si gira a rovescio e si appende la mascherina alla maniglia del coperchio. Dopodiché si pone il coperchio sulla pentola e lo vi si lascia per almeno una notte intera. In questo modo, i vapori della soluzione potranno raggiungere ogni punto della mascherina, esercitando una completa azione disinfettante.

Naturalmente, al posto della soluzione idroalcolica avremmo potuto usare anche un altro disinfettante, purché siamo certi della sua efficacia nell’alta disinfezione. Ricordiamo che un disinfettante è qualsiasi sostanza di natura chimica in grado di distruggere agenti patogeni in fase di sviluppo (batteri, funghi, virus escluse le spore batteriche). Tale termine deve essere inteso in senso restrittivo per indicare prodotti da applicarsi su oggetti inanimati (superfici, dispositivi medici, etc).

La nebulizzazione del disinfettante non deve inzuppare la mascherina.

Non va bene, invece, usare al posto del disinfettante un detergente, cioè una sostanza che diminuisce la tensione superficiale tra sporco e superficie da pulire, favorendone l’asportazione. Il detergente va bene solo per la pulizia o sanificazione, ovvero per la rimozione meccanica dello sporco da superfici e oggetti. Tale operazione deve sempre precedere le operazioni di disinfezione e sterilizzazione, affinché queste ultime possano esplicare in modo efficace la loro rispettiva azione.

La sterilizzazione delle mascherine con la luce UV

In questo paragrafo parleremo delle sterilizzazione con i raggi ultravioletti. Si noti che, mentre la sterilizzazione è un processo chimico o fisico in grado di distruggere tutte le forme di vita dei microrganismi, comprese le spore, la disinfezione è un processo chimico o fisico che semplicemente riduce il livello di contaminazione microbica in fase vegetativa su materiale inerte, e si ottiene mediante l’utilizzo di agenti chimici liquidi o mediante calore umido (pastorizzazione, ebollizione)

I livelli di attività anti-microbica dei disinfettanti. 

È sicuro che le mascherine decontaminate con gli ultravioletti proteggeranno ancora gli operatori sanitari. “I dati sono molto chiari sul fatto che è possibile uccidere e inattivare i virus con l’irradiazione germicida UV”, ha affermato il dott. Mark Rupp, capo delle malattie infettive dello University of Nebraska Medical Center. “È anche molto chiaro che ciò non danneggia i respiratori”. L’alternativa sarebbe quella di chiedere agli operatori sanitari di conservare con cura le loro mascherine e di riutilizzarle senza pulirle.

La luce ultravioletta (UV) è stata la scelta dell’ospedale del Nebraska perché è efficace e conveniente. Non a caso, gli ospedali di molti Paesi del mondo utilizzano già la luce UV per decontaminare le stanze dopo lo spostamento di pazienti con infezioni pericolose. Il centro medico in questione ha usato la luce UV per disinfettare le stanze anche quando stava curando i pazienti con Ebola, qualche anno fa. I pazienti sono stati inviati lì perché il centro ha una sofisticata area di biocontenimento.

Portiamo grandi lampade UV, premiamo ‘start’ e lasciamo la stanza”, ha spiegato uno dei responsabili dell’ospedale americano. “Le lasciamo irradiare per 3-5 minuti. Disinfettano ovunque possa illuminare. E per quanto riguarda le mascherine N95, del tipo usato dagli operatori sanitari, ci sono davvero dei buoni dati che possono decontaminarle e che non le degradano in modo significativo. In ogni caso, usiamo 3 volte la concentrazione di luce UV necessaria per uccidere i coronavirus”.

Mascherine conservate dopo la disinfezione con i raggi UV-C in un ospedale. 

Le mascherine si conformano in qualche modo al viso dell’operatore sanitario ed è necessario che vi sia una stretta sigillatura mascherina e viso. Pertanto, la mascherina di ciascun operatore sanitario viene restituita all’utente dopo la decontaminazione. In pratica, gli operatori sanitari scrivono i loro nomi sulle loro mascherine prima di usarle per la prima volta. Dopo aver rimosso le mascherine per la decontaminazione, queste vengono collocate in sacchetti marroni etichettati con i loro nomi.

I sacchetti in questione vengono trasportati in una stanza speciale coperta da una vernice beige che riflette la luce UV. Dopo che le mascherine sono state trattate, ognuna va in un sacchetto di colore diverso con sopra il nome dell’operatore sanitario. Le mascherine vengono ispezionate prima di ogni nuovo utilizzo, Naturalmente, tala procedura è sperimentale e vi sono incertezze. Ad esempio: quante volte è possibile riutilizzare una maschera prima di buttarla? Una settimana, ma forse anche 2 se necessario.

Anche noi, dunque, possiamo utilizzare la sterilizzazione UV-C per le nostre mascherine. Allo scopo, dato che i raggi UV-C sono assai pericolosi e dannosi per gli occhi e per la pelle, possiamo realizzare uno sterilizzatore chiuso, come quello che abbiamo illustrato nell’articolo Come costruire uno sterilizzatore a raggi UV, che trovate qui. In alternativa, possiamo esporre la mascherina a uno sterilizzatore commerciale o ad una lampadina o lampada UV-C in un armadio chiuso, spegnendo però sempre la fonte UV-C prima di aprirlo.

Uno dei numerosi sterilizzatori UV-C in commercio, come quelli che puoi trovare, con un ottimo rapporto qualità/prezzo, qui.

Gli UV-C sono anche noti come luce UV a onde corte e hanno una lunghezza d’onda compresa tra 200 nm e 280 nm. La particolarità della radiazione UV-C è che è particolarmente efficace nella disinfezione. In particolare, la lunghezza d’onda di 264 nm è incredibilmente impressionante nell’uccidere germi, virus e batteri. Fortunatamente, le radiazioni UV-C possono passare attraverso l’aria senza creare ozono, quindi le lampade UV-C possono essere utilizzate nell’aria per disinfettare le superfici.

Uno dei tipi più comuni di luci UV germicide sono le lampade al mercurio a bassa pressione, che vengono utilizzate in una vasta gamma di applicazioni tra cui il trattamento delle acque reflue, la depurazione dell’acqua potabile, la lavorazione e l’irradiazione degli alimenti, il recupero dell’acqua, la sterilizzazione dell’aria e il controllo degli odori. Tali lampade offrono la massima efficienza, con il 40% della potenza elettrica di una lampada convertita in radiazione UV-C a 254 nm.

L’esposizione dell’ultravioletto germicida è il prodotto del tempo e dell’intensità. Elevate intensità per un breve periodo e basse intensità per un lungo periodo sono fondamentalmente uguali nell’azione letale sui batteri. La legge dell’inverso del quadrato si applica all’ultravioletto germicida così come alla luce: il potere di uccisione diminuisce all’aumentare della distanza dalle lampade. Il batterio medio verrà ucciso in 10 secondi a una distanza di 20 cm dalla lampada di un apparecchio UV-C medio.

Una lampadina UV-C germicida da 15 W. Ne puoi trovare diverse online, ad es. qui.

Una lampadina UV-C da 15 W coprirà circa 10 metri quadrati; una lampadina da 30 W coprirà circa 20 metri quadrati. Le lampade UV-C germicide uccidono fino al 99,9% della maggior parte dei virus, batteri dispersi nell’aria e perfino le spore di muffa. Esse sono buone per circa 17.000 ore (due anni) di uso continuo, con solo il 20% di riduzione dell’efficienza nel corso di due anni. Se non volete usare una lampada UV-C, potete esporre la mascherina semplicemente ai raggi ultravioletti del Sole.